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Domenico di Francesco (de senzasangh)

Dal 1941 al  1943  Domenico partecipò alla  Campagna d’Africa dove ebbe una vita dura e piena di pericoli.

 

Nel giugno 1943, fui imbarcato su una nave ospedaliera, portato in Italia e precisamente a Napoli, dove avrei dovuto trascorrere 90 giorni di convalescenza (…). Finita la convalescenza, tornai col treno a Palena e poi a piedi fino a Montenerodomo, ma  mi  dovetti presentare alla caserma a Chieti ……

Tommaso Picccoli (de lu isse)

Con l'armistizio dell'otto settembre, gli alleati sbarcarono in Sicilia e successivamente in Puglia con l'intento di liberare l'Italia dai tedeschi, i quali si erano insediati per tutto l'inverno anche nella nostra zona, occupando Casoli, Gessopalena, Torricella Peligna e Montenerodomo (dove vivevo con la mia famiglia in contrada Casale).
Tramite i "porta-voce" venimmo a conoscenza che a Montenero paese, i tedeschi avevano fatto saltare le case, mantenendo "in piedi" solo la casa di "Dragone" e quella di "Ruslin", poiché esse servivano per conservare i prodotti saccheggiati.
Considerata la triste sorte del paese, il giorno prima della Concezione (7 dicembre 1943) insieme a mia moglie incinta, i miei genitori e le famiglie di Francesca e Andrea, prendemmo le bestie che avevamo e andammo a Colle Buono (Roccascalegna). Fu una fortuna, perché l'otto dicembre, fecero esplodere le case a Casale, io da Colle Buono vidi saltare la chiesa vicino casa nostra.
Tuttavia, tornavo spesso a Casale, per prendere il grano ed altre provviste, nascoste con arguzia, in un pagliaio diroccato che apparteneva a Bambina.
Una volta, mentre tornavo, al Malvento (Colle Zingaro) mi accompagnai con Nicola de Matteo. Arrivati a Casale, lasciammo le giumente alla masseria di Bambina ed entrammo a casa della famiglia "di Matteo". Si fa per dire "casa", visto che c'erano solo la cucina e una camera, il resto era stato fatto esplodere precedentemente.
Ricordo ancora adesso: c'era la nebbia ed era impossibile vedere anche a poca distanza; comunque avevamo disposto le provviste sul letto, pronti per caricarle sul bestiame e poi tornare a Rocca; ma, mentre parlavamo, la moglie di Nicola rientrò in casa urlando "Ecco i tedeschi!!!", noi convinti che fosse uno scherzo abbiamo continuato a chiacchierare. In effetti, entrarono tre tedeschi (ma a causa della nebbia fu impossibile vederli prima in lontananza), mentre uno faceva da palo, altri e due saccheggiarono tutto quel ben di Dio; in quello stesso giorno anche dai miei genitori rubarono 12 galline.
La fortuna fu che non scesero sotto nella "terrata", dato che lì c'erano "le sacchette" che oltre al grano contenevano fucili e munizioni appartenenti al Fedele "Guardacampagne" che le usava per lavoro. Se fossero scesi sotto e avessero scoperto quell'arsenale, ci avrebbero fucilato tutti!
A Casale, i tedeschi avevano adibito la casa di "Marcaune", come ripostiglio per il bottino che di volta in volta depredavano. Con l'arrivo degli alleati, essi furono costretti ad allontanarsi, senza preoccuparsi di portare con sé le provviste. Approfittando della loro assenza, qualcuno andò a rubare quelle derrate, ma subito, quattro tedeschi tornarono indietro e seguendo le tracce lasciate sopra la neve (poiché era inverno), raggiunsero prima due uomini per la strada e mentre due soldati li presero e li accompagnarono a San Martino, altri due si diressero verso la masseria di Lorenzo Rossi. In quella situazione, solo Annina de Marcaune e mio padre, fecero in tempo a rendersi conto del pericolo ed ebbero la prontezza a buttarsi giù per i fossi e nascondersi. I tedeschi mentre arrivavano da Lorenzo, incontrarono una vecchietta, senza risparmiare alcuna atrocità la fucilarono e proseguirono; entrarono in casa e presero 11 persone e lo stesso le portarono a San Martino, precisamente a casa di Nicola de Benditt. Lì fecero una specie di processo e le fucilarono: le vittime erano sia adulti sia giovani, ricordo un ragazzo di 14 anni, era proprio bello, nemmeno lui fu risparmiato...
Finita la guerra, fu possibile ricostruire la casa, non solo grazie ai lavori di manovalanza da parte di noi monteneresi, ma soprattutto grazie all'intervento della famiglia Croce, che contribuì economicamente (soldi che poi ha riavuto sottoforma di contributi) all'acquisto del materiale edile. Così, la mia famiglia, come segno di riconoscenza è rimasta a lavorare dai Croce come socci.
Ho tentato anche la via dell'emigrazione, andando in Belgio in miniera. Purtroppo il mio fisico non era adatto a questo tipo di lavoro, quindi dopo tre mesi e mezzo fui costretto a tornare a Montenerodomo.

(Testimonianza raccolta da Sonia Tamburrino, membro del gruppo Pilota)

Vincenzo Di Rocco (cambriane)

Era una bella giornata autunnale. Io e il mio amico Fredduccio, ragazzi di tredici anni, stavamo giocando alla Portella. Fummo interrotti dall'arrivo di due tedeschi, i quali cominciarono ad ispezionare la zona con cannocchiali militari. Intimoriti ed incuriositi, restammo a guardare, ma presto i soldati cercarono di prenderci. Fredducio per fuggire, cadde dalla rupe de lu Valze; mentre io fui afferrato per un braccio e seguendo le loro istruzioni, a gesti fui costretto a prendere una cesta di uova per portarla al podestà (Antonio de Ciangiuole). Arrivati vicino al negozio di Amalia, approfittando di una distrazione dei due soldati, lasciai le uova e fuggii via. Intanto, il povero Fredduccio dopo alcuni giorni morì a causa delle ferite riportate durante la caduta.
L'incontro con i tedeschi, per me, segna l'inizio dell'occupazione tedesca nel nostro paese.
Verso il mese di novembre, i soldati ci cacciarono dalle nostre abitazioni e le fecero saltare in aria.
La maggior parte della popolazione, tra cui io, ci rifugiammo sopra la Serra, dove assistemmo ad uno spettacolo mai visto: la case, accompagnate da un rumore assordante, prima si muovevano in aria e poi scoppiavano. La mia famiglia, composta da papà, mamma in stato interessante, due sorelle maggiori (Maria e Antonietta), due sorelle e un fratello minori (Rosa, 10 anni; Rocco, 7; Anna Emilia, 3), ci rifugiammo a Selvoni, nella masseria di Francesco de Severeine.

A parte i saccheggiamenti, i tedeschi fino allora non avevano fatto del male a nessuno. Un giorno, due di loro incontrarono Nicola de Sandille e i fratelli Antonio e Carmine D'Antonio (D Ndrej). Dopo una perquisizione scoprirono che essi avevano con sé i "soldi dell'occupazione" probabilmente di provenienza degli alleati che stavano a Roccascalegna, dove i tre uomini si erano precedentemente rifugiati. Essi furono catturati. Il gruppo si diresse verso Palena, luogo in cui si era insediato il commando tedesco. Quando i tre giovani capirono le cattive intenzioni dei tedeschi, specie da una frase "Palena... Caput...", si ribellarono, li aggredirono e li stordirono a colpi di botte. Secondo coloro che ricordano i fatti, quest'episodio segnò l'inizio delle rappresaglie dei tedeschi contro i civili.

Pochi giorni dopo questa vicenda, la mia famiglia decise di fuggire. Seguendo le disposizioni dei miei genitori, partimmo prima papà e con lui, noi tre figli maggiori (Antonietta, Maria ed io), e solo successivamente ci avrebbero raggiunto gli altri, ossia mamma, Rosa, Rocco ed Emilia. Lasciammo così la masseria di notte, con la famiglia de Ciangiuole: dal Colle Ferrier proseguimmo fino a monte di Maio, verso Fonticelle. La sentinella tedesca installata sul monte Calvario si accorse del movimento e cominciò a sparare. Dopo aver aspettato che tutto si calmasse, ci dirigemmo verso Casale per arrivare a Tre Confini ed infine a Pennadomo. Il tragitto fu molto pericoloso: oltre alle sentinelle che sparavano, bisognava fare molta attenzione anche alle mine antiuomo disseminate lungo il percorso. A tale proposito fu di notevole aiuto mio padre che avendo combattuto nella prima guerra mondiale, riusciva ad individuare il posizionamento delle mine.
Papà faceva spesso ritorno alla masseria dov'erano la moglie e i figli, per accertarsi della salute, specie della moglie che stava per partorire. Lì abitava anche la famiglia di Giovanni D'Antonio, che in caso di emergenza l'avrebbe comunque soccorsa. Nella notte del 25/03/1944, in uno dei rientri di papà, e purtroppo anche l'ultimo, mentre egli era ancora in casa, ci fu l'irruzione da parte dei tedeschi. Per salvarsi egli fuggì, scalzo, quasi senza curarsi del resto della famiglia e si nascose dietro l'abitazione. Da fuori egli sentiva che all'interno della casa c'erano due pattuglie tedesche che discutevano animatamente tra loro, dai discorsi si poteva capire che l'argomento in questione era se salvare i bambini oppure no.
Di colpo sentì solo le urla, i lamenti, i litigi e ... gli spari.
Il mattino seguente mentre mi trovavo in piazza a Pennadomo, sentii persone che parlavano tra loro: "... Stanotte... contrada Selvoni...i tedeschi hanno ammazzato...", dai discorsi cominciai a sospettare, ma non avevo alcuna certezza, poi incontrai Domenico de Severeine, che mi chiese "Perché non vai a casa?". Tornato a casa arrivò Francesca de Cenze che preoccupata ci domandò "Avete mangiato qualcosa?", da lì capii tutto. Ero un ragazzo, ma certe cose si intuiscono a pelle!
Da allora, ho sempre voluto approfondire la questione, così mi sono fatto raccontare questo terribile episodio da mio padre.
Papà, dopo che sentì gli spari, aspettò che i tedeschi uscissero, solo allora poté rientrare. Lo spettacolo era terrificante: i tedeschi gli avevano ammazzato la moglie e i tre figli, ma la cosa più orribile era come i bambini stessero abbracciati attorno alla madre, come se cercassero un riparo.
Non esausto di questa versione, mi sono fatto raccontare i fatti dal vice comandante della Brigata Maiella, Domenico Troilo che vive a Gessopalena e dal compianto maestro Lorenzo D'Orazio. Le salme furono trovate nel pagliaio accanto all'abitazione, coperte sommariamente con una porta vecchia. Così rimasi orfano di madre, è dura per un ragazzo accettare la morte, specie se dovuta alle barbarie degli uomini, come in questo caso.

ARRIVO DEGLI INGLESI
Un giorno stavamo con la famiglia di Assunta di Panocce sotto la Serra a zappare. Assistemmo assistito ad una scena che, secondo me, poneva fine all'occupazione tedesca. Una camionetta di soldati inglesi si fermò sulla strada, due rimasero dentro ed altri due scesero ed andarono verso il Colle della Guardia. Le sentinelle tedesche li avvistarono ed cominciarono a sparare. Per un po' i due scomparvero e dopo una mezza giornata, si rividero a valle, precisamente al Maragone. In seguito, gli inglesi presidiarono il Colle della Guardia e costrinsero i tedeschi a ritirarsi verso Colledimacine.

Leonilde Tamburrino (nilde de giammattist)

Prima che scoppiasse la Seconda Guerra Mondiale, vivevo con la mia famiglia a Montenerodomo, nel rione San Vito; con noi era venuto ad abitare zio Giustino Carozza, trasferitosi dopo la scomparsa della moglie. Egli era un ex maestro ed amava leggere, tant'è che a quei tempi era abbonato anche ad una rivista, che puntualmente prestava a mio padre Luigi. Proprio grazie alla lettura di un articolo di quel giornale, agli inizi di settembre, "tate" apprese che le truppe tedesche erano già sbarcate in Grecia.

Nei giorni seguenti si appurò che la guerra era ormai vicina anche alle nostre zone; così mio padre, con l'aiuto dei miei fratelli, Rocco e Peppe, prese i beni di prima necessità, tra cui 4-5 quintali di grano e li portò alla masseria de Sabbateine (Antonio Di Lullo), mentre parte del raccolto lo nascose a casa nostra, spargendolo sul pavimento della stanza e ricoprendolo con una coperta resistente.
Nel frattempo, per informarsi della situazione a Montenero ed altrove, "tate" frequentava periodicamente il Comune.
Il 4 ottobre 1943, fummo costretti a lasciare le nostre case: io, "tate" ed i miei fratelli fummo ospitati da Sabbateine; mia madre, Adelina, rimase a Montenero con zio Giustino, mentre mia nonna si trasferì presso la famiglia de Giovanni di giurgitte.

Il 26/11/1943 i tedeschi minarono il paese, solo allora mia madre si decise a raggiungerci; purtroppo, il maestro Giustino rimase in casa, dove morì d'inedia il mese successivo. Egli fu seppellito in una fossa provvisoria (scavata da Lucia Di Rocco e la figlia Maria Tamburrino), vicino all'abitazione de lu Bosse; dopo il ritiro delle truppe, ad aprile, mio padre portò la salma al cimitero comunale.

Durante l'occupazione, mio fratello Peppe fu chiamato alle armi e mandato in Grecia, distaccato a Rodi. Noi, a Montenero, ricevemmo una sola lettera in cui c'era scritto "Ringraziate Dio. E' affondata la prima nave". Poi non avemmo più notizie. Solo al suo ritorno, alla fine del '44, Peppe ci raccontò che erano partite due navi, la prima fu fatta affondare, mentre la seconda dov'era lui, arrivò a destinazione.

Intanto, a Montenero, "tate" e Rocco si erano spostati a Selvoni presso la famiglia D'Alessandro, (da Zi' Frangische de Frammilij), perché lì c'erano la stalla e un prato dove i tedeschi non erano ancora arrivati, e potevano allevare gli animali tranquillamente. Purtroppo, i tedeschi presto arrivarono anche lì e derubarono il nostro bestiame che fu ritrovato a Paganica, a Raiano e vicino Pizzoferrato, solo quando la guerra era finita.
Io e mia madre, continuavamo ad alloggiare da Sabbateine, dove risiedeva anche una famiglia di Bari. Il capofamiglia (La Pecorella Nino), siccome conosceva il tedesco, riusciva a colloquiare con loro e a barattare i viveri (essi ci davano qualcosa da mangiare, in cambio noi davamo loro il vino).

Restammo lì fino al 21 dicembre 1943. Dopo questa data, mamma e nonna rimasero lì, mentre io, Peppe e "tate", con l'aiuto della famiglia barese e di due uomini di Pizzoferrato che mediavano con i tedeschi, riuscimmo ad oltrepassare il fronte e a raggiungere Atessa. In seguito, la mia famiglia, insieme con quella di "Tonielle" arrivammo a Serracapriola, un paese che si trova in Puglia. Lì ci rincontrammo con altre persone di Montenero, tra cui Antonio de Ciangiuole, il quale trovò un lavoro anche a "tate".

Con noi non avevamo niente, solo una biancheria di ricambio, e tanti, tanti pidocchi.
Comunque, a Serracapriola trovammo rifugio nella stalla dove Antonio teneva i buoi.
La nostra fortuna fu che papà incontrò un pastore, che prima della guerra veniva a Monte Pidocchio per la transumanza. Egli ci trovò un altro rifugio, insieme con altre persone di Montenero (Cristina e Peppe de lu banntaure): dormivamo in una stalla, su sacchi pieni di paglia, mentre mangiavamo nella loro abitazione. Nella stalla, c'era anche un focolare che noi usavamo perlopiù per la disinfestazione dei panni.
Lasciammo Serracapriola alla fine di marzo del 1944, quando mio padre si era accertato che i tedeschi si erano allontanati da Montenero.
Quindi, per tornare, papà dovette prima andare a Barletta a ritirare un lasciapassare, e solo allora potemmo ripartire.
Arrivati a Roccascalegna, ci fermammo presso la famiglia dove abitava mia cugina Maria (de uierme), per una quindicina di giorni. Finalmente tornammo a Montenero e per un periodo alloggiammo a San Vito, a casa de Spaccaune, una delle poche abitazioni che aveva resistito alle terribili mine della SS.
In quel periodo, in paese si vedeva solo gente indaffarata a sgombrare le macerie: tutti scavavano, ripulivano e riciclavano ogni genere di materiale edile. Tutto il lavoro era fatto con mezzi di fortuna (carriole, zappe, picconi, pale, ecc..).

La mia famiglia poté ricostruire la casa, grazie al denaro prestato da un signore di Torricella Peligna (Carapelle), debito estinto progressivamente con i proventi della cantina, che mio padre gestiva.

(Testimonianza raccolta da Sonia Tamburrino).

Antonio Carozza (de neld)

Quando le truppe tedesche di occupazione si fecero minacciose, moltissime famiglie di Montenero sfollarono nei paesi limitrofi, tra cui Pennadomo. Tra esse, le famiglie di Camillo Carozza, di Antonio de quaquitt e di Peppe de petrozz. La famiglia di Peppe fu ospitata in una casa vicino alla chiesa.

Peppe, di tanto in tanto e tra tanti pericoli, ritornava in paese per recuperare viveri di prima necessità. Un giorno di primavera, marzo 1944, egli chiese all'amico Giuseppe di portare l'asino per trasportare tali viveri ( patate,grano,fagioli, ....) che aveva accuratamente nascosto casa di Angelo de zi Crescenne, zio della moglie Luisetta.
All'andata risalirono da contrada Casale. Non incontrarono alcun problema. Caricarono l'asino di viveri e, dopo aver salutato alcuni amici in piazza San Martino, ripresero la strada per Pennadomo. Riscesero dalla costa dell'uoire facendo lo stesso percorso dell'andata.

Ad un certo punto, lungo la strada de l'Urtleine, successe l'imprevedibile: l'asino finì su una mina. Un forte boato rimbombò fino in piazza dov'ero anch'io. Accorremmo per capire cosa fosse successo. Capimmo subito. Io e Giovanni de mlane ci precipitammo giù per soccorrere quei poveretti.

Uno spettacolo sconvolgente e indescrivibile: l'asino morto, i viveri sparsi lungo la via, Giuseppe di Pennadomo disperato ma fortunatamente illeso! Il povero Peppe disteso a terra sembrava morto.
Ci avvicinammo e costatammo che Peppe, pur gravemente ferito, era vivo. Dopo un breve consulto, decidemmo che io sarei andato a chiedere aiuto al comando dei partigiani a Fallascoso. Giovanni, con alcuni amici, che nel frattempo erano giunti sul posto, in qualche modo avrebbero dovuto cercare di riportare Peppe in paese.
Con il cuore in gola raggiunsi in poco tempo il comando dei partigiani a Fallascoso.
Al comando raccontai l'accaduto. I due partigiani di guardia non sapevano cosa fare, e, dopo un momento d'incertezza, decisero di chiamare il comando inglese installato ad Atessa.

Fu una lunga conversazione. Dal comando alleato volevano assicurazioni che lungo il tragitto non sarebbero incappati in qualche mina. Io cercavo di convincerli, non fu facile!

Dal comando arrivò l'ordine ai due partigiani di verificare in loco l'accaduto. Molto velocemente salimmo su una camionetta per raggiungere Montenerodomo. Il povero Peppe l'avevano riportato a casa di Antonio de Saverie a San Martino: Era gravemente ferito alla testa e fu poi trasportato di corsa verso l'ospedale di Casoli.
Grazie al nostro intervento e a quello degli amici partigiani arrivati in aiuto, Peppe riuscì a salvarsi, ma rimase invalido per tutta la vita.

(Testimonianza raccolta da Angelo Piccoli)

D’ANTONIO Carmine (de lu nunzie)

Nel 1943 vivevo con la mia famiglia a Selvoni (masseria D'ANTONIO Domenico). Eravamo 9 tra fratelli e sorelle.
Ai primi di ottobre i soldati tedeschi occuparono il paese e iniziarono a venire a Selvoni con i cavalli in quanto a quel tempo non c'era ancora la strada per le macchine.

Poiché a noi ci presero tutte le pecore, a novembre andammo alla Castelletta sui monti Pizzi per ricomprarle dai pastori pugliesi che praticavano la transumanza. Erano rimasti bloccati lì e non potevano tornare in Puglia a causa della linea "Gustav" messa in atto dai tedeschi. Comprate le pecore, decidemmo di andarcene a Roccascalegna. Partimmo una sera di novembre con molta neve, eravamo più di 40 persone tra cui Nicola CALABRESE (attualmente in Argentina), altre due famiglie portarono le pecore tra cui quella di "quaquitt" e di COLETTA Nicola di birliche. Passammo dalle parti della masseria de bughettine, sotto a monte di Majo, e proseguimmo per contrada Ponte de la Schiera, Fonticelle e imboccammo la strada per Casale.

Giunti all'Arivuccie, dalla postazione tedesca che si trovava vicino a Juvanum, spararono dei razzi che illuminarono a giorno, ma non usarono la mitragliatrice. Dopo pochi secondi una pecora saltò su una mina, ci fu un trambusto generale e ci mettemmo a correre, mi accorsi che una scheggia mi aveva sfiorato la testa bucando il cappello e per tre giorni mi "fischiarono" le orecchie; la mattina arrivammo a Roccascalegna con i greggi mischiati e dopo alcuni giorni ci spostammo a Pennadomo.

Parecchie volte tornai a casa per prendere qualcosa da mangiare che mio padre aveva nascosto.
In marzo del '44 andammo alle masserie dei Croce a Montepidocchio. Ero presente quando il 13 aprile fummo oggetto di cannonate e fu colpito a morte il mio amico Pompilio DI ROCCO che stava al mio fianco, mentre scappavamo da quell'inferno.

(Testimonianza raccolta di Domenico D'Orazio)

Rossi Francesco (de lu virgule)

Nell'autunno del 1943 la mia famiglia risiedeva nella fattoria dei Croce a Montepidocchio; lavoravamo insieme ad altre due famiglie di Montenerodomo ("de giammattiste e peppe de mariandonie") e in totale eravamo 20 persone.In ottobre arrivarono i soldati tedeschi, ci presero gli animali, le provviste alimentari e ci cacciarono in quanto nel casolare collocarono un presidio.

Noi ci rifugiammo nella fattoria di Onorato Rossi "de maulucce" a Bosco Barone ed eravamo in tanti; nella vicina casa dei DI LULLO "de Sabbateine" c'era tantissima gente sfollata, perlopiù forestiera ne ricordo una di Pescara e in essa una persona faceva da interprete ai tedeschi; da noi nell'aia stazionava sempre una sentinella tedesca; me ne andai a Pennadomo ma dopo 5/6 giorni tornai da Onorato.

Dal loro comando nel casolare dei Croce mi venivano a prendere per tagliare la legna o accudire gli animali; un giorno radunarono circa 30 uomini tra cui io e Domenico Di Francesco "Senzasang" e a ridosso di monte Collepizzuto ci costrinsero a costruire una baracca in legno; questa serviva per la postazione di mitragliatrice che avevano sul monte e da qui al colle Ferrari era tutto presidiato; infatti avevano scavato una trincea tra la fine di monte Pidocchio e colle Pennapizzuto e al dosso della "fossa del lupo" c'era un'altra baracca che serviva per la postazione di colle Ferrari. Dal loro comando correva una linea telefonica che scendeva verso il bosco, attraversava il Parello, risaliva alle masserie Casciato e su fino a Pizzoferrato; andando nel bosco due volte tagliai questa linea.

A febbraio del '44 dopo il tentativo dei partigiani di liberare Pizzoferrato, i tedeschi cominciarono a ritirarsi verso "Lisciapalazzo" e Palena e prima di lasciare le postazioni con le mine interruppero la strada verso Montenero in prossimità della "Fossa del lupo"; una sera vennero a prendere me e Fedele ROSSI "de maulucce"; ci fecero caricare 23 tra muli e cavalli di munizioni, generi alimentari, vestiario e attrezzature e con parecchi soldati ci incamminammo verso Selvoni lungo la strada che porta a fonte Vricciar e la Grotta; ricordo che c'era la neve e la luna piena, giunto in prossimità della grotta scappai e mi nascosi lungo un fosso; i tedeschi si accorsero subito della mia assenza e cominciarono a sparare dei razzi, quando ripartirono mi nascosi in un pagliaio da Onorato; Fedele fu rilasciato al bivio per Colledimacine.
Man mano che si ritiravano cominciammo a tornare alle case a Monte Pidocchio; anche qui eravamo in tanti con intere famiglie giunte dal paese e da Selvoni. I tedeschi avevano lasciato molte munizioni per mortaio e mitragliatrice, siccome c'erano molti bambini per evitare altre tragedie, le raccolsi e le buttai dentro il pozzo.

Il 13 aprile del '44 dallo "Schiappone" (tra Pizzoferrato e la stazione di Palena) i tedeschi cannoneggiarono il casolare: le prime due cannonate sorvolarono monte Pidocchio, la terza e la quarta caddero davanti alle case. Aggiustato il tiro, la quinta colpì una grande quercia davanti al casolare, una scheggia colpì mortalmente al petto ROSSI Riccardo "de mariandonie" e un'altra ferì DI TOMMASO Pasquale " de cianciuole", morto in seguito all'ospedale di Atessa il 18 di aprile). Cominciammo a scappare tutti verso la strada per Civitaluparella ma la sesta cannonata colpì un angolo della stalla che si trovava sulla strada e una scheggia colpì mortalmente alla schiena DI ROCCO Pompilio che stava scappando con il figlio in braccio, Pompilio cadde ma quel bimbo si salvò, la moglie e altre persone furono ferite ma si salvarono.

(Testimonianza raccolta e documentata da Domenico D'Orazio)

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