Nel X-XI secolo, infatti, l'autorità ecclesiastica che aveva rappresentato l'unico baluardo contro la barbarie e il caos dei secoli precedenti cominciò a essere erosa dal sorgere di potenti famiglie feudali, come quella dei cosiddetti "Figli di Borrello".
Di stirpe franca, essi discendevano da Berardo detto "il Franciso", giunto in Italia dalla Borgogna al seguito di Ugo di Provenza, figlio di Pipino il Breve, morto nel 954. Tra i nipoti del Franciso si distinse Oderisio, meglio conosciuto come Borrello I, al quale i principi longobardi di Benevento, nel 1002, concessero in feudo il Contado di Trivento che divenne così la "Terra Burrellensis" e che i figli Giovanni, Oderisio II, Randuisio e Borrello II contribuirono ad ingrandire con la conquista dei territori limitrofi.
Nel 1065 anche il territorio di Montenerodomo venne incluso nella Terra Burrellensis, estesa allora tra il medio Sangro, l'alto Trigno, il Contado di Isernia e quello teatino, della quale fece parte fino al 1139, anno della sua annessione al Regno normanno di Sicilia.
Fu quella dei Borrello una grande Signoria feudale, tra le più durature d'Abruzzo. Pur facendo parte del Principato di Benevento, i Borrello agirono sempre nella più assoluta indipendenza, anzi, in più di un'occasione, anche contro gli interessi dei Principi longobardi, destreggiandosi sempre con macchiavellica scaltrezza e acume politico tra le potenze dell'epoca e agendo sempre nell'interesse della propria casata.
Tra il 1105 ed il 1134 la Terra Burrellensis fu in gran parte inglobata nella Contea di Molise e i loro feudatari decaddero al ruolo di Vassalli.
Quindi, nel 1139, conquistata dal re normanno Ruggero II e annessa alla Corona di Sicilia, fu divisa in due parti: quella meridionale fu compresa nella Terra di Lavoro, quella settentrionale, con la terra di Montenerodomo, rimase nella Contea di Sangro che, invece, venne a far parte del Ducato di Puglia e, successivamente, (durante la dominazione angioina), del nuovo Abruzzo (Aprutium citra flumen Piscariae).Dal già citato Catalogo dei Baroni, compilato durante il regno di Ruggero II, risulta che "nel 1148 Jacopo della Roma teneva dal re Pizzo ed alcuni tenimenti in Ortona ed in Montenegro. Tutti due quest'ultimi per feudo di un soldato a cavallo, vale a dire: della popolazione di circa ventiquattro famiglie" (L.A. Antinori, op. cit.). Tenuto conto che lo storiografo aquilano assegnava quattro o cinque persone a ogni famiglia, se ne ricava che la popolazione del feudo di Montenegro ammontava allora a circa 90-120 persone.
Il catalogo, che costituiva anche un vero e proprio registro militare indicando il numero dei militi (cavalieri) e dei "servientes" (fanti), di solito in numero doppio rispetto ai primi, che il feudatario aveva l'obbligo di mobilitare in favore del Sovrano (Montenegro, feudo di un milite, era a quel tempo un feudo povero e di estensione non superiore a 2 Kmq), fornisce un quadro delle condizioni feudali di quel periodo.
La vita nei feudi in quei tempi caratterizzati da un susseguirsi di guerre e di invasioni che portavano dietro di loro distruzioni, pestilenze e ogni genere di angherie, era tutt'altro che facile. Il feudatario regolava quella dei propri sottomessi, la maggior parte dei quali, come servi della gleba, coltivava le sue terre ricavandone, a fronte di immani fatiche, quel poco che permetteva loro di sopravvivere. Infatti, dal già misero raccolto di grano, orzo e spelta che la terra offriva, era necessario detrarre quanto dovuto al feudatario oltre alle varie imposte (erbaggio, pedaggi, ecc.). Pochi nel feudo erano gli appartenenti a classi economiche superiori che possedevano qualche capo di bestiame, oppure esercitavano una professione o un'attività artigianale sempre, comunque, limitata entro i confini del feudo. Scarsa era, inoltre, la circolazione del denaro, sostituito dal baratto, e indescrivibili le condizioni igieniche, fonte di continue epidemie che mietevano vittime tra la misera popolazione.
Alla dominazione dei Normanni d'Altavilla si sostituì, dopo circa un secolo, quella sveva, passando il Regno di Sicilia in eredità a Federico II di Svevia, figlio della principessa Costanza d'Altavilla e di Enrico IV di Svevia.
L'Italia meridionale fu allora divisa in nove Giustizierati, ognuno con a capo un Giustiziere che, oltre ad essere responsabile dell'ordine pubblico, esercitava anche attività giudiziaria e fiscale.
Il nostro paese venne, allora, a far parte dello "Iustizieratus Aprutii" che aveva Sulmona come capitale.
Federico II fu uno dei più grandi monarchi del tempo. Diede impulso alle arti e riordinò il Regno, dotandolo di una nuova costituzione, e soffocando il potere dei Baroni, alcuni dei quali, a lui ostili, si ribellarono alla sua autorità schierandosi con il Papa allorché l'Imperatore fu colpito da scomunica. La lotta divampò feroce in tutto il Regno tra i seguaci del Sovrano ("i ghibellini") e quelli del Papa ("i guelfi"). La fazione ghibellina, disorientata dall'improvvisa morte di Federico II avvenuta nel 1250, riprese vigore con il suo successore, il figlio naturale Manfredi "il re biondo e di gentile aspetto" contro il quale il Papa fece scendere in Italia l'ambizioso ed avido Carlo d'Angiò, figlio del re di Francia Luigi VIII. Questi si impadronì del Regno di Napoli sconfiggendo prima Manfredi nel 1266 a Benevento, dove il Re svevo trovò la morte, e, l'anno successivo, il giovane principe Corradino di Svevia a Tagliacozzo.